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Chiesa di Sant'Angelo. E' la chiesa patronale di Licata ed è intitolata a Sant'Angelo Carmelitano che a Licata subì il martirio nel 1220 per mano di un signorotto della  città, Berengario La Pulcella.

L'attuale edificio di culto prospetta monumentale sull'omonima piazza, con struttura basilicale a tre navate con transetto e cupola sul lato sinistro dell'abside.

I lavori dell'attuale chiesa ebbero inizio a partire dal 1639 con un progetto a firma di Angelo Italia. 

 

 

 

 

All'interno si ammira oggi il pozzo miracoloso, dove sarebbero state scoperte le reliquie di Sant'Angelo, realizzato con una artistica balaustra ottagonale nel 1673 da Giovanni Romano, committente il barone Francesco Vincenzo Buglio Minafria e Serrovira.

A sinistra della navata l'antica cappella di Sant'Angelo, ospita la seicentesca preziosa e artistica urna argentea che custodisce le reliquie del Santo Patrono, realizzata dal maestro argentiere Lucio De Anizi, protetta da un alta ed artistica cancellata in ferro battuto progettato dal can. Angelo Italia, architetto della Curia agrigentina, e realizzato dai maestri Giuseppe Lo Blundo di Licata e Giovanni Lauricella di Agrigento.

La chiesa custodisce ancora numerose e pregiate opere d'arte: la Madonna della Lettera, di autore ignoto, due tele di ignoto artista del 600 con Sant'Angelo in estasi e  il Martirio di Sant'Angelo, l'Ecce Homo  degli inizi del XVI secolo, dove l'anonimo artista si richiama alle esperienze pittoriche di Antonello da Messina, le statue lignee del Settecento del profeta Elia, di San Francesco di Paola e della Madonna di Trapani.

Una tela con i SS. Filippo e Tommaso, di anonimo artista siciliano del 700, la Deposizione  di Gioacchino Martorana del 1778.

Un paliotto d'altare, in legno ricoperto di lamina d'argento sbalzato su velluto rosso con al centro un medaglione con il santo benedicente,

Ai piedi delle navate stanno i cenotafi e i sarcofagi marmorei di Angelo Frangipane e Celestri (1795), del marchese Gerolamo Frangipane (1758), del marchese Domenico Cannada (1762), della baronessa Isabella De Caro e Miano.